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sabato 29 dicembre 2012

Il Vaticano e l'uomo della Provvidenza


Articolo pubblicato sul blog beppegrillo.it 

Quando il cavalier Benito Mussolini firmò i Patti Lateranensi con il Vaticano nel 1929, papa Pio XI lo ribattezzò in un discorso pubblico "Uomo della Provvidenza": "E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi". Sono passati 83 anni e Rigor Montis, un altro uomo della Provvidenza, gesuita di educazione, cattolico praticante, che ha seguito durante il suo governo la massima di togliere ai poveri per dare ai ricchi, si è manifestato.
E' salito tra noi. Porta in dono l'IMU e le scuole private al Vaticano al posto di oro, mirra e argento. L'Osservatore Romano ha così spiegato l'entusiasmo del Vaticano "Salire in politica è in sintesi l'espressione di un appello a recuperare il senso più alto e nobile della politica che è pur sempre, anche etimologicamente, cura del bene comune". L'Osservatore continua "Napolitano... al quale tutti riconoscono il merito di aver individuato proprio nel senatore a vita l'uomo adatto a traghettare l'Italia fuori dai marosi della tempesta finanziaria" A cui il Vaticano è rimasto immune.. Un IMU val bene una messa. Bagnasco ha elogiato Rigor Montis "Non si possono mandare in malora i sacrifici di un anno". Parla ovviamente dei sacrifici degli italiani, non risultano infatti sacrifici del Vaticano. Se Agnelli spiegò che la Fiat è sempre governativa, il Vaticano è qualcosa di più, si fa esso stesso governo di uno Stato estero. Vanno distinti Chiesa e Vaticano, la prima è la casa di tutti i cattolici, il secondo è uno Stato che fa i suoi interessi terreni. Il Vaticano non può ingerirsi negli affari della Repubblica Italiana, così come lo Stato Italiano non deve influenzare, ad esempio, la nomina del prossimo Papa o del Segretario di Stato. Cavour usò la frase "Libera Chiesa in libero Stato" per affermare il principio della divisione tra il potere spirituale della Chiesa da quello temporale, rappresentato dai Savoia. Non aveva previsto Mussolini, il Vaticano, Bagnasco, Bertone e Rigor Montis. Forse è il caso di rivedere i Patti Lateranensi.

mercoledì 26 dicembre 2012

Stiamo arrivando! (Beppe Grillo).

Articolo pubblicato sul blog beppegrillo.it il 23.12.2012

Al Grand Hotel Italia c’è chi va, chi viene, quasi tutti restano. E’ un luogo fantastico. Si trova in pieno centro a Roma, in piazza Montecitorio. Chi ci è stato, anche per un breve periodo, non ne può più fare a meno. E’ come una droga per cui non c’è cura. Chi vi entra si trova sospeso tra il cielo e la terra, si illumina di nuova luce, la sua voce è propagata per tutto il Paese da una selva di microfoni ossequianti. Non importa quello che dice e neppure come si esprime. La gente lo guarda con nuovi occhi, televisivi, e lo ammira. Lui, lei, lo sanno. Sanno che sono assurti a nuove divinità da temere e adorare, come un tempo Mercurio o Diana. Il Grand Hotel è l’Eden, il Paradiso Terrestre dove per magia i rospi sono trasformati in principi, le mignotte in statiste, gli analfabeti in giuristi, i mafiosi in senatori. Chi non vorrebbe farne parte? E’ il raggiungimento di un sogno, la vincita al superenalotto, la posizione sociale più ambita, la bacchetta magica della fata Smemorina. C’è chi ucciderebbe la madre o prostituirebbe la sorella per un seggio da parlamentare. La vita all’interno del Palazzo Dorato, presidiato da attenti guardiani che vigliano sulla incolumità degli eletti, si svolge tra buvette, camerieri, poltrone ottocentesche, bronzi, scaloni monumentali, arazzi, mobili rococò, corridoi damascati e un’aula dove il massimo sforzo è pigiare un bottone per votare su indicazione del partito e in cui, talvolta, gli ospiti si esibiscono con voce tremante in discorsi fiammeggianti preparati da moderni scribi che occupano gli uffici stampa ai piani superiori. Negli incontri occasionali è tutto un fiorire di “Onorevoooole” e “Direttore“, “Sottosegretario” e “Ministroooo“. Negli sguardi brilla la soddisfazione di chi ha raggiunto l’irraggiungibile. Si può entrare nel Palazzo solo per raccomandazione, è necessario essere presenti in una lista di nomi scelti, uno per uno, dai tenutari del grande edificio barocco trasformato in un postribolo della democrazia. La lista è chiusa, nell’elenco sono sempre presenti alcune centinaia di nomi che hanno già maturato legislature di esperienza nel Palazzo (oltre al vitalizio) e fede cieca nella causa. I nuovi posti a disposizione sono pochi, si possono ottenere solo in virtù di denaro, una nomina si può trattare per un milione o due, di pacchetti di voti, non inferiori ai diecimila, di amore a prima vista, o anche a occhi chiusi, per i tenutari. In questo posto sconsacrato della democrazia, isolato dalla società civile, occupato dai Nuovi Proci, entreranno a fine febbraio dal portone principale dei Cittadini del M5S, che in aula si faranno chiamare “Cittadini“. Saranno insieme a milioni di italiani che vedranno con i loro occhi, proporranno con le loro parole, voteranno con le loro mani attraverso la Rete. Stiamo arrivando. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

giovedì 20 dicembre 2012

Finalmente condannate le banche che smerciano robaccia

Articolo scritto da Michele Serra su La Repubblica del 20/12/2012.

Se un macellaio vi vende carne marcia, o un falegname vi consegna una sedia con le gambe rotte, non c’è cavillo giuridico che possa salvarli dall’obbligo di risarcimento. Perfino i medici sono chiamati a rispondere di eventuali lesioni dovute a cure sbagliate o interventi maldestri.
La sentenza di Milano che riconosce responsabili quattro banche per avere investito il denaro del Comune nei famosi “derivati” — l’equivalente finanziario della carne marcia e della sedia con le gambe rotte — è dunque storica perché “laicizza”, finalmente, l’idea stessa che abbiamo del sistema bancario, sconsigliando, per il futuro, la classica definizione di “santuari della finanza”. Se è vero che esiste un margine di rischio (ogni investitore è tenuto a saperlo), è anche vero che le banche, negli anni precedenti il crac del 2008 e la paurosa crisi susseguente, hanno non solo accettato di trattare robaccia dal rendimento dopato e dalle basi inconsistenti; ma hanno – smerciando quella robaccia a piene mani – contribuito a renderla normale, plausibile, consigliabile.

Così come il mestiere del macellaio è controllare che la carne non sia guasta, non dovrebbe una banca, fatto salvo il margine di rischio, verificare che un prodotto finanziario non sia una bufala?

sabato 15 dicembre 2012

I distacchi sindacali, un privilegio che ci costa 151 milioni all'anno


Qualche settimana fa i giornalisti de Lo Spiffero, quotidiano online di Torino, hanno scoperto che figli o parenti (con tanto di nomi e cognomi) di sindacalisti sono stati assunti dall’azienda di trasporto torinese per poi essere subito distaccati presso Cgil, Cisl e Uil. Costoro sono stati assunti per chiamata (in un momento in cui nessun giovane normale trova posto) e, una volta guadagnatasi la busta paga pubblica, si sono imboscati, con tutti i crismi, presso un’organizzazione privata.
Questi privilegi (o meglio “prerogative”) si chiamano “distacchi sindacali”, in barba alla crisi e ai tagli alla spesa.
Nel 2010 – secondo la Corte dei Conti - i permessi sindacali nel settore pubblico sono costati all’Erario 151 milioni di euro. La fruizione dei diversi istituti (aspettative retribuite, permessi, permessi cumulabili, distacchi) può essere stimata come equivalente all’assenza dal servizio per un intero anno lavorativo di 4.569 unità di personale, pari a un dipendente ogni 550 in servizio.
In tempi come questi, possiamo  davvero permettercelo?

Province, i costi del flop Monti


Articolo di Mauro Munafò, pubblicato su l'Espresso.it


La loro soppressione poteva portare risparmi miliardari. Ma il governo ha preferito una riforma poco incisiva sui conti, bloccata dal Parlamento. Ecco cosa succede adesso e quanto ci costerà

Doveva essere il fiore all'occhiello dell'azione del governo contro la casta, gli sprechi della politica e la burocrazia di stato E, invece, la travagliata riforma delle province si è rivelata un disastro tecnico ed economico per l'esecutivo Monti, pari forse a quanto accaduto con la vicenda esodati. In pochi mesi si è così passati dall'abolizione totale, alla riduzione del numero e infine al nulla di fatto.

"E' una riforma nata male, non troppo diversa da quanto aveva già previsto Tremonti", spiega Andrea Giuricin, professore della Bicocca e ricercatore per l'Istituto Bruno Leoni, "Un vero risparmio, senza creare confusione sulle funzioni, si sarebbe ottenuto con l'abolizione completa delle province e il governo aveva tutto il tempo di avviare una procedura di riforma Costituzionale per farla. Preferendo invece l'accorpamento, ha creato una norma facilmente attaccabile in Parlamento".

I costi e i (mancati) risparmi. Secondo uno studio realizzato proprio da Giuricin per il Bruno Leoni, l'abolizione completa delle province avrebbe portato a un risparmio di circa 2 miliardi di euro l'anno, prevedendo un trasferimento delle loro funzioni alle Regioni. Oggi le province spendono in totale circa 11,5 miliardi e la cancellazione del loro "livello", garantendo però il mantenimento dei posti di lavoro, avrebbe permesso enormi economie sul lato di amministrazione e controllo. "L'abolizione delle province avrebbe permetto di risparmiare 869 milioni in amministrazione, 140 milioni di costi politici e circa un miliardo grazie alle economie di scala", continua Giuricin nel suo studio, "Parliamo quindi di un valore quasi quintuplo rispetto a quanto previsto dalla riforma del governo".

L'esecutivo infatti, dopo aver prima annunciato l'intenzione di abolire le province, ha preferito seguire la via dell'accorpamento con la riduzione del numero complessivo di enti e delle loro funzioni. Un piano che nelle previsioni (piuttosto fumose) del ministero della Funzione Pubblica avrebbe permesso risparmi tra i 370 e i 530 milioni di euro, ma assai contestato sia da chi chiedeva l'eliminazione totale delle province sia da chi voleva mantenerle.

"Il governo ha commesso un grave errore. Il ministro ha dichiarato di voler mantenere le province ma con funzioni ridotte: è un ragionamento profondamente sbagliato", spiega Luigi Oliveri, dirigente della provincia di Verona, ed esperto di diritto degli enti locali per LaVoce e LeggiOggi, "Come si può pensare di realizzare economie di scala se si fa spezzatino delle funzioni affidate? Frastagliando i compiti tra venti regioni e ottomila comuni non è possibile un vero risparmio e non mancano altri gravi errori. Ad esempio, hanno tolto alle province la responsabilità su formazione e lavoro, lasciando però la scuola secondaria, come se i due ambiti non fossero collegati tra loro".

Il danno e la beffa. Dal punto di vista dei costi il fallimento governativo è quindi doppio: nonostante abbia optato per una riforma dai risparmi inferiori, l'esecutivo Monti non è riuscito a portarla a termine, finendo bloccato in Parlamento tra dubbi di costituzionalità e prevedibili resistenze da parte dei potentati locali. Di più, ai mancati risparmi si sostituiscano adesso i costi aggiuntivi tutti da definire. "Tra le conseguenze [del mancato rinnovo del ddl ndr], oltre ai mancati risparmi che si sarebbero ottenuti con la riduzione delle Province, ci sarebbe una lievitazione dei costi a carico dei Comuni e soprattutto delle Regioni" spiega un allarmato comunicato del ministero della Funzione Pubblica.

Non bastassero i guai economici, il flop sulla riforma delle province investe ancora di più l'aspetto funzionale. Tre diversi atti normativi (il salva-Italia, la Spending Review e il ddl sul riordino) hanno spostato competenze tra province, regioni e comuni, ma la decisione del Senato di non convertire in legge il ddl sul riordino impedisce di completare l'opera e adesso serve capire quale ente dovrà fare cosa. E soprattutto: con quali soldi?

giovedì 13 dicembre 2012

Province stagnanti


Questo articolo è di Massimo Gramellini, pubblicato su "La Stampa" del 13/12/2012


La commissione affari costituzionali del Senato ha impiegato appena tre quarti d’ora per affossare la riforma delle province. Ma è il «come» che merita di essere raccontato e ringrazio il lettore G.P. per il resoconto della riunione. Il presidente della commissione Vizzini (già segretario del Psdi quando il centravanti del Milan era Van Basten) esordisce spiegando che il provvedimento è stato oggetto di esame accurato, ma che la crisi politica e la presenza di emendamenti e subemendamenti da approfondire rendono arduo il completamento dell’esame. Il senatore Boscetto (Pdl) condivide e ritiene necessario un rinvio. Il senatore Calderoli (Lega) rileva che il lavoro di sintesi, encomiabile, non è stato in grado di individuare una soluzione condivisa. Il senatore Bianco (Pd) ringrazia il presidente e prende atto con dispiacere che non sussistono le condizioni per proseguire. Il senatore Milana (Udc) condivide la valutazione del senatore Bianco e il senatore Pardi (Idv) rileva incongruenze ma auspica. Il presidente Vizzini prende atto e toglie la seduta.

Non uno che abbia avuto il coraggio di dire la verità: sono contrario a ridurre le province perché garantiscono posti e clientele. Tutti pronti, i finti litiganti da talk show, ad arrampicarsi in cordata sugli arabeschi delle procedure parlamentari pur di vanificare, senza assumersene la responsabilità, l’unico provvedimento che tentava di cambiare finalmente qualcosa. Questo sconcio balbettio viene chiamato comunemente politica, ma ne rappresenta l’esatto contrario. La politica è acqua tumultuosa ricondotta negli argini, non stagno dove galleggiano i tronchi marci dei nostri ideali.

domenica 9 dicembre 2012

Crescere si può


Come può tornare a crescere un paese vecchio, ricco, densamente popolato e con un sistema industriale fondato sulla piccola impresa? Lo spiega Francesco Daveri, intervistato da Sergio Levi, nel nuovo libro della serie de lavoce.info in collaborazione con Il Mulino: "Crescere si può". Ne pubblichiamo un estratto.

(...) Qual è il motivo principale per cui abbiamo smesso di crescere, e per cui (plausibilmente) non potremo più tornare a crescere come in passato?

Con una formula sintetica, si può dire che abbiamo smesso di crescere da quando siamo diventati un paese VERDE, vale a dire, un paese VEcchio, Ricco e DEnsamente popolato. Siamo vecchi perché già oggi 20 italiani su 100 hanno più di 64 anni; una quota così alta di persone anziane la si trova tra i paesi ricchi solo in Giappone. In un paese vecchio si formano maggioranze politiche contrarie al cambiamento e all’innovazione: e senza innovazione non c’è crescita. In secondo luogo, siamo molto più ricchi di una volta: il nostro reddito pro-capite è circa il doppio di mezzo secolo fa. E in un paese con la pancia piena diminuisce la voglia d’inventarsi (o cercarsi) un lavoro dove c’è, mentre cresce l’aspirazione a trovarselo sotto casa. (…) Infine, con i nostri 206 abitanti per chilometro quadrato, siamo anche un paese molto più densamente popolato rispetto agli altri paesi ricchi dell’Ocse che di abitanti per chilometro quadrato ne hanno solo 35. (…) In un paese densamente popolato aprire un negozio o una fabbrica e realizzare un’infrastruttura diventa terribilmente complicato e costoso. E con alti costi di produzione e commercializzazione dei prodotti si fa fatica a competere nel mondo globale.

Ma se i limiti che fanno di noi un paese VERDE non si lasciano scalfire, perché non cercare di sostenere la crescita riducendo le tasse o aumentando la spesa pubblica? In altre parole, perché non dare ascolto a quanti invocano un provvisorio allentamento dell’austerità, almeno finché dura la crisi?

Penso che la via fiscale sia una strada pericolosa, e soprattutto senza sbocchi, perché presuppone una crescita hard che all’Italia, paese VERDE, ormai è preclusa. Inoltre, noi italiani siamo abituati da troppo tempo a convivere con un debito pubblico enorme; e allora penso, se anche il governo ci desse uno stipendio mensile a titolo gratuito, ognuno di noi sarebbe portato a chiedersi: e domani cosa succede? Questi soldi che lo Stato mi regala, in che senso me li sta regalando? Poniamo che ognuno di noi riceva dallo stato mille euro al mese per un anno. Chiediamoci che uso potrebbe farne. Difficile che vada a spenderli, sapendo che sono solo per un anno, e che stanno dando a tutti la stessa cifra. Se penso che i soldi che ricevo oggi li devo ridare all’Agenzia delle Entrate domani, allora invece di spenderli, li risparmio. Ma risparmiarli significa metterli in banca: in questo caso, il governo, erogando quei soldi, starebbe facendo un favore alle banche e, solo indirettamente, alle imprese. (…)

Quindi, in un paese VERDE come il nostro la strada di una crescita estensiva basata sulle opere pubbliche è sbarrata. Se neanche lo stato può aprire una via fiscale alla crescita, riducendo le tasse o aumentando la spesa, non ci rimane che usare meglio le risorse a disposizione. Ma allora è vero che le liberalizzazioni sono di cruciale importanza; molto meno chiaro è come si suppone che debbano funzionare.

Le liberalizzazioni servono, di solito, a favorire l’imprenditorialità, facilitando l’ingresso di attori che hanno qualcosa di nuovo da apportare nei vari settori. Sono il veicolo principale dell’innovazione. Però, se devono far crescere l’economia, bisogna che siano fatte in modo da rendere le imprese più competitive, soprattutto quelle che esportano. In questo contesto (detto fra parentesi) propongo di guardare all’Italia come a un grande paese industriale, perché lo considero ancora un buon paradigma. Anche se arranca da diversi anni, la nostra industria rappresenta ancora il 19 per cento del nostro Pil, mentre in Inghilterra rappresenta solo il 16 per cento, e in Francia il 12 per cento. Non siamo come i tedeschi, che sono al 26 per cento, ma non siamo neanche messi così male da questo punto di vista. Ebbene, per cercare di fare crescere l’industria italiana c’è una cosa che bisogna tassativamente fare, ed è cercare di fare in modo che i servizi di cui l’industria ha bisogno costino meno. (…)

È stato detto che le liberalizzazioni di Monti non hanno funzionato perché sono state pensate dal punto di vista dell’offerta dei servizi, anziché dal punto di vista dell’utente.

È così. E aggiungerei che anche in quei casi in cui guardavano ai consumatori, hanno ottenuto poco. Aumentare il numero delle farmacie, in che senso mi beneficia, se sono un consumatore di farmaci? Mi può dare un beneficio se i farmaci vengono a costare meno. Se aumentiamo il numero delle farmacie, ciò che si riduce nel migliore dei casi è il costo di andare in farmacia, perché ci metto meno tempo, ho un vantaggio di prossimità. Però bisognerebbe chiedere agli anziani se preferiscano fare 300 o 500 metri in più per andare a prendere il farmaco nel paese vicino e pagarlo meno; oppure pagarlo come prima (perché i farmaci di fascia C non vanno nelle parafarmacie) ma fare meno strada. (…)

Pare di capire che dalle liberalizzazioni avviate dal governo Monti non potremo aspettarci molto in termini di ripartenza dell’economia e di crescita del Pil.

Il problema, secondo me, è che queste misure sono state applicate in modo un po’ astratto. Io sono molto favorevole alle liberalizzazioni, ma non perché facciano crescere subito l’economia; per quello ci vorrà del tempo. In generale, le liberalizzazioni, la riduzione delle barriere all’entrata al fare impresa e innovazione, fanno aumentare la concorrenza e la libertà, e maggiore concorrenza e libertà di fare rendono la società più aperta e meno esposta al ricatto delle corporazioni che infestano l’Italia. Però, per fare in modo che le liberalizzazioni diano qualche risultato in termini di crescita, bisogna guardare il paniere dei prezzi al consumo delle famiglie, per capire quali voci sono più importanti o sono cresciute di più; e su queste si può intervenire in varie forme, in parte dirigistiche, in parte liberali, per ottenere risultati concreti. (…)

(…) Sembra di capire che solo «restando in Europa» e solo contribuendo a far crescere l’Europa potremo tornare a crescere in Italia.

È così. Mentre la crescita soft (quella delle idee) è più adatta a noi italiani, che – come sempre si dice – siamo genio e sregolatezza, la crescita hard può andare bene per i tedeschi e i cinesi: conviene lasciarla a loro. Quel che possiamo sperare è che la crescita hard che la Germania e i suoi satelliti portano avanti in Europa possa trainare anche la nostra crescita soft, nello stesso modo in cui le aziende emiliane e venete della meccatronica sono trainate dal boom delle vendite cinesi della Bmw e della Volkswagen.

Ma se l’Europa si sta frammentando sul piano industriale, i benefici di una maggiore integrazione europea non finiranno per aggiudicarseli i paesi del blocco tedesco?

La risposta è in due parti. In primo luogo, dipende da cosa intendiamo con «integrazione». Ci sono settori in cui anche noi possiamo portare a casa qualcosa. Per esempio, se in Italia decidiamo che siamo il parco divertimenti d’Europa, la cosa potrebbe dare buoni risultati. Il nostro scopo diventerebbe costruire eliporti e altre infrastrutture che attirino turisti, i quali arriverebbero dall’America, dalla Russia, dal Qatar per fare i loro tour dei campi da golf e tornare a casa. (…) La seconda parte della risposta è che il «blocco tedesco» è forte in altri settori. E da questo punto di vista bisogna anche tenere conto dei mercati che possono aprirsi negli Stati Uniti: non credo che gli americani vorranno riempirsi di frigoriferi tedeschi. Ciò che piace agli americani è il made in Italy. Se pensiamo agli americani, quali sono i paesi d’Europa meglio posizionati di fronte all’ipotesi di una più ampia integrazione europea (ed eventualmente euro-americana)? Francia e Italia. Quali sono i paesi d’Europa che possono vantare un marchio paese? Francia e Italia; e forse anche Spagna. Noi italiani abbiamo l’alta moda, il design, il lusso e l’alimentare. (…)

È per questo che ha cominciato a orientarsi sull’idea dell’integrazione euro-americana?

Sì, perché mi sembra il modo migliore per aumentare la dimensione della torta. E noi riusciamo a farlo se riusciamo ad andare in questi mercati che crescono molto, dove però è difficile «muoversi» per le piccole aziende italiane. C’è un numero interessante, che dice quanto è grande il Pil della Cina, dell’Europa e degli Usa. Se si guardano soltanto i tassi di crescita, si trae la conclusione che solo andando in Cina si possa crescere, perché la crescita della Cina è del 10 per cento l’anno. Però il Pil della Cina al momento è ancora molto inferiore al Pil degli Usa e dell’Europa. Quindi un 2 per cento di crescita in Europa e in America, genera più o meno lo stesso incremento che genera un 10 per cento in Cina: e ciò conferma che in realtà non è ancora così scontato che le aziende debbano per forza produrre in Cina, o vendere in Cina. (…) Bisogna dire che i dazi fra Europa e Usa sono già molto bassi, ed esiste un forte flusso di scambi. Pur essendo grandi aree economiche integrate al loro interno, e quindi relativamente chiuse al commercio con l’estero, Europa e Usa nel 2010 si scambiavano beni per 410 miliardi di dollari, con l’Ue che esportava in Usa beni per 240 miliardi di dollari e ne importava dall’America per 170. (…) In altre parole, esiste già un commercio di beni e prodotti abbastanza simili fra i paesi più ricchi d’Europa. Ebbene, potremmo fare lo stesso con gli Stati Uniti se ci fossero meno vincoli, e in particolare se ci fossero meno barriere non tariffarie. Ci sono grandi possibilità d’integrazione, che finora non sono state sfruttate. Le «barriere» da abbassare interessano vari settori, dalle assicurazioni ai servizi alle imprese, dal manifatturiero agli alimentari. Il senso di tutto questo è che possiamo (solo) vincere stando con i vincenti; anche se non siamo noi che trainiamo il carro in prima persona.

Francesco Daveri, Crescere si può, Il Mulino 2012
Intervista a cura di Sergio Levi