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giovedì 15 novembre 2012

Finanziare la ricerca e non le banche. Una tiratina di orecchie a Mario Monti.



Tre anni, in media, per ottenere un brevetto. Ecco i tempi preventivati dal Ministero dello Sviluppo Economico nel sito ufficiale (http://www.uibm.gov.it). Se la competitività di una nazione si misura anche dal tempo necessario a proteggere (e valorizzare sul mercato) una nuova idea, l’Italia non è messa troppo bene.
La capacità di brevettazione influenza l’innovazione tecnologica e la possibilità di crescita di un paese: due facce della stessa medaglia. Una certa complicazione burocratica non è però sufficiente a giustificare un numero di brevetti decisamente inferiore rispetto a quello degli altri paesi sviluppati.
Nel confronto europeo l’Italia, con 82 domande di brevetti per milioni di abitanti depositate all’EPO (European Patent Office), è largamente sotto la media dell’Unione Europea (116). Al contrario Paesi quali Svezia (332) e soprattutto Germania (295) svettano in termini di innovatività.
In Italia si brevetta cinque volte in meno che in Germania: i dati del 2009, in ulteriore peggioramento negli anni successivi, dicono che a fronte delle 5 mila domande di brevetto italiane presentate all’Epo i tedeschi ne avevano presentate ben 25 mila.

Ma tutto questo, in concreto, che significa? I brevetti fanno funzionare le imprese e portano parecchi soldi agli istituti di ricerca, auto finanziandoli.
Tra gli istituti tedeschi il solo Max Planck guadagna ogni anno dalla «vendita» dei suoi prodotti di innovazione circa otto volte in più di Cnr (Centro Nazionale delle Ricerche), Enea e le nostre cinque migliori università tutti messi assieme: circa 16 milioni di euro, nel 2010, contro i quasi 2 milioni «italiani». Per non parlare del Fraunhofer, altro istituto germanico, i cui numeri viaggiano quattro volte al di sopra di quelli del Max Planck.
I finanziamenti pubblici tedeschi, contrariamente a quanto si pensa, non sono superiori a quelli Italiani. La differenza la fa interamente il settore privato, dove manca strutturalmente l’attitudine al rischio. Acquistare un brevetto e svilupparlo significa sempre addossarsi il rischio di un insuccesso: quello di tradurre in prodotto commerciale i risultati dei prototipi di laboratorio. Si predilige quindi investire su progetti scontati e poco innovativi, una strategia penalizzante perché porta a realizzare prodotti arretrati aggredibili con facilità dalla concorrenza asiatica.

La possibile soluzione a questa situazione drammatica (ma ben nota alla politica nazionale e locale) non può essere la solita distribuzione a pioggia di fondi.
Ecco alcune idee:
1) Al centro di tutto ci deve essere lo snellimento delle procedure burocratiche per il deposito dei brevetti. Chi ha buone idee deve poterle proteggere subito, visto che in tempo di crisi si è competitivi solo con l’innovazione. Anche perché i brevetti che possono essere “monetizzati” subito sono quelli legati alle nuove tecnologie (informatica, telecomunicazioni) dove la concorrenza è spietata, e un giorno in meno (non un anno) fa la differenza tra successo e insuccesso;
2) Impulso alla ricerca privata con la completa defiscalizzazione degli utili reinvestiti in nuove tecnologie. Nessuno ha avuto veramente il coraggio di farlo, ma è facile prevedere che le entrate per lo Stato, in termini di crescita economica, sarebbero di gran lunga superiori alla rinuncia di una parte delle entrate fiscali;
4) I fondi pubblici per la ricerca devono essere gestiti da chi ha conoscenze e capacità, non dalla politica. In Francia la vecchia agenzia per l’innovazione, Oseo, fa da “incubatore” per le imprese che vogliono accedere ai finanziamenti e segnala poi al governo le aree su cui vale la pena investire. Anche con Invitalia si è cercato di fare questo, ma il modello non è stato applicato correttamente e non ha dato buoni risultati. Le imprese da finanziare dovrebbero essere selezionate autonomamente con ricorso a soggetti quali venture capitalist e fondi di private equity.
5) lo Stato deve erogare i fondi per la ricerca in maniera più trasparente e con procedure più snelle. Spesso enormi risorse (come parte dei fondi FAS) sono distribuite con bandi poco trasparenti e difficilmente individuabili, su cui speculano società di servizi e di intermediazione. Peggio ancora quando i tempi si allungano e il progetto per il quale era stato chiesto il finanziamento non è più innovativo
6) Modificare la normativa in modo che gli investimenti convergano prioritariamente sulla nascita di nuove aziende (le cosiddette start-up), le uniche che possono creare nuova occupazione e sviluppo. Oggi le piccole start up rischiano di fallire perché iniziano ad anticipare soldi che arrivano dopo anni e, visto che non sono grandi aziende, nell’attesa rischiano il decesso.

Ci vorrebbe un governo più attento all’innovazione e meno alle esigenze delle Banche, che alla ricerca non contribuiscono più da tempo.

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